C’è questo modo in cui le persone esternalizzano il cambiamento climatico, come i sintomi di qualcosa di esterno: i modelli meteorologici, gli effetti climatici, ridurre il cambiamento climatico al riscaldamento globale, per esempio. Il cambiamento climatico non è solo un modello meteorologico, esso si riversa su come mangiamo, su come componiamo canti sul mondo. È tutto, è la mia pelle.
Il cambiamento climatico non è il riscaldamento globale: è la colonizzazione, è l’eredità dell’estrattivismo e della dislocazione. Humboldt non lo scoprì nel 1801: nel XV secolo, 11 milioni di persone furono portate attraverso l’Atlantico. Quello era il cambiamento climatico.
Non posso pensare al cambiamento climatico se non pensandolo attraverso le prigioni della nave negriera che attraversa l’Atlantico. E nel trasportare quelle anime, nel catturare quelle anime, rubare i loro corpi in questo progetto di lavoro solare globale, hanno smantellato il sistema con cui ci relazioniamo l’un l’altro, sconvolto i linguaggi con cui incontriamo gli dei e le dee e le relazionalità che intrecciano i nostri mondi. E quindi c’è un senso molto molto critico per cui siamo invitati a notare in che modo gli scienziati chiamano l’Antropocene: come questo punto urgente in cui dobbiamo galvanizzare l’intero pianeta in questo racconto ammonitore di accorgerci che siamo nei guai. Non è solo un sintomo di qualcosa che è andato storto, ma che è collegato a decenni, centinaia di anni di dislocamento, negazione, repressione, oppressione e colonizzazione.
Non è solo arrivando a destinazione che dobbiamo notare anche le crepe, ma che siamo in questo posto in cui ci troviamo proprio ora a causa di questa umanizzazione – penso che qualcuno una volta lo abbia definito un “umanesimo brutale”.
Questo tentativo di separarci dal mondo, di creare una spaccatura metabolica, di insistere sul fatto che siamo individui – penso all’antropos, o all’individuo, come al progetto della modernità – nel modo in cui la modernità sta cercando di fare è separarci dalla nostra parentela con il mondo che ci circonda e insistere sul fatto che apparteniamo a noi stessi, che siamo creature atomico-newtoniane e che l’unico modo per stare nel mondo è vivere separati, o il più separatamente possibile.
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E penso che i nostri tentativi tecno-burocratici di “risolvere” il cambiamento climatico buttando soldi sui sintomi, o lanciando politiche sui sintomi, sia fuori luogo, perché il punto non è che abbiamo perso qualcosa in un programma che stiamo provando a fare, il punto è che ci stiamo comportando come fossimo superiori alla terra (…) Il trauma è il modello ecologicamente cibernetico che continua a ripetersi spiritualmente, corporalmente. Quindi continuiamo a ripetere quegli schemi mortificanti, specialmente quando pensiamo a noi stessi come a soggetti lungo una linearità.
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Se potessimo invertire il tempo, se il nostro accordo di Parigi potesse effettivamente produrre qualcosa, se le nostre molteplici politiche e legislazioni potessero effettivamente fare qualcosa, se potessimo in qualche modo pompare denaro nelle tecnologie che invertono l’acidificazione degli oceani, se potessimo sequestrare tutto il carbonio dall’atmosfera , se potessimo “risolvere” queste cose, non avremmo comunque affrontato il nocciolo della questione.
(…) È un riscaldamento globale della disperazione. (…) Come viviamo le nostre vite, come mangiamo, stiamo trasmettendo a livello molecolare questi sentimenti di disperazione.
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Quindi, non è del tutto lasciato a noi risolvere i problemi. Se fosse in capo a noi, reinscriveremmo un’antropocentrismo che trovo profondamente inquietante e problematico.
Trascrizione/traduzione di Rebecca Rovoletto
da “Climate Crisis, Fragmentation and Collective Trauma”, 3 nov 2021
https://www.youtube.com/watch?v=6RWfad60fmM&list=PLzYAtCGqqcaFUVJNAb0ilNCMv8tTNE14z