Fabrice Olivier Dubosc ha tradotto le parti principali del discorso di apertura o keynote speech di Bayo Akomolafe alla cerimonia di laurea della Pacifica Graduate Institute, 29 maggio 2021
«Questi non sono tempi normali. Vi parlo dall’India, il paese di mia moglie, dove vivo con la mia famiglia. Qui è notte in più sensi. Intorno a noi ci sono morte dolore e sofferenza. Anch’io sto ancora faticando con il COVID, insieme al resto della mia famiglia. Sono a casa con i nostri bambini in un rigido lockdown imposto dall’amministrazione di Chennai, mentre una nuova variante del COVID-19 che preoccupa il mondo intero spopola le strade. Altrove nel mondo, un iceberg delle dimensioni dello Stato americano dei Rhode Island (più di 3000 km quadrati NdT) si stacca dalla banchisa Antartica, mentre un teso coprifuoco si protrae dopo una prolungata fase di assimmetrica guerra tra Israele e la Palestina; in Marocco, centinaia di famiglie hanno cercato di entrare nelle enclavi di Centa e Melilla; il congresso degli Stati Uniti discute di Fenomeni Aerei Non Identificati, potenzialmente affrontando un discorso su cosa significhi essere umani in un’era interplanetaria; e l’Antropocene – questi momenti di perdita e instabilità – continua follemente la sua corsa. Recentemente ho sentito qualcuno dire che il 2019 è stato l’ultimo anno normale. Ho capito cosa voleva dire, ma non sono d’accordo: ciò che “normale” è sempre supportato da qualcosa di invisibile e occultato, la normalità diventa tale grazie a un dislocamento. Viviamo nei tempi di Giorge Floyd certo, ma non dimentichiamo che abbiamo vissuto per molto tempo in un mondo dove la nave schiavista era possibile. E anche se mi congratulo con i cittadini degli Stati Uniti per la diminuzione dei contagi, per l’allentamento dei protocolli di emergenza per la salute pubblica, per il numero crescente di vaccinazioni, non posso avere fiducia nel fatto che la salute sia una proprietà individuata, domiciliata in singoli corpi isolati.
Tutto oggi è disagevole e fonte di impaccio. C’è qualcosa che ha a che fare con l’imbarazzo che attraversa queste giornate di zoom: bambini che appaiono improvvisamente nelle riunioni virtuali interrompendo la solita routine, l’impossibilità di sapere con certezza se qualcuno che parla, sotto l’inquadratura sia o meno vestito. Questi sono giorni di fallimento, di perdita, di confusione (…)
Cosa significa laurearsi alla fine del mondo durante una pandemia? A cosa servono queste cerimonie? Che cosa può mai significare un rituale che celebra il raggiungimento di una competenza in un tempo in cui la competenza è intralciata dal collasso nel mondo? Quando non è più chiaro che cosa significhi essere umani?
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Voglio raccontarvi una storia, ora, un’altra fine di mondi. Potrebbe aiutarci a capire meglio queste domande – ma ancor di più, e lo spero, potrebbe darci lo spazio per scoprire luoghi che non conosciamo ancora. Questa è una storia di resistenza, libertà, perdita di speranza, e sull’arte queer del fallimento. È su ciò che accade quando le cose non funzionano come ci si aspettava, Quando la visibilità è bassa, quando ti vien detto di abbassare lo sguardo e di star giù. È una storia che parla di nerezza.
Forse avete già capito in che direzione stiamo andando: non sono qui per dirvi che andrà tutto bene, che avete solo bisogno di speranza e determinazione, che il mondo è coerente è leggibile. Non sono qui per pregare per il vostro successo (…) . Sono qui per parlarvi di incrinature, di faglie, di fratture, di schegge, di ferite e di tutte le cugine delle crepe.
Vi dico che il mondo sta “contrattaccando”, vi parlo di cose scollate dagli algoritmi, di un’insurrezione di creaturine invisibili, della perdita di stabilità, della disabilità. Per quelli a cui piace il cinema i film A Quiet Place e Bird Box, usciti entrambi nel 2018, raccontano storie di ciò che accade quando qualcosa di strano ed estraneo irrompe attraverso la pagina di ciò che è familiare disarticolando i corpi nello shock di una penetrazione trasversale, ribaltando il senso di cosa significhi avere competenze e di cosa significhi essere disabili. Queste esplorazioni cinematografiche si chiamano cripistemologie,un termine che definisce lo studio di come vengano prodotti corpi abili con la simultanea produzione di altri corpi resi disabili. In A Quiet Place la locuzione e la voce diventano improvvisamente un handicap. Se parli muori. E in Bird Box, ancor più criticamente, è la vista – che domina la sensorialità – a diventare un handicap. Vedere significa spezzarsi. Mi chiedo allora: potrebbe essere che nel mondo odierno delle pandemie e del caos climatico il successo possa essere un handicap? E se essere interi, se ottenere un certificato di buona salute, probabilmente scritto con l’inchiostro dorato di una recente vaccinazione, significasse ironicamente nutrire quella bestia affamata che si nutre del nostro individualismo? Se tale centralità umana ha contribuito a pratiche di sconferma e abuso, forse non abbiamo bisogno di esseri umani in “buona salute”, isolati e indifferenti, come zavorra ecologica. (Chi mi ha invitato potrebbe aver fatto un errore – ma potremmo anche scoprire una sorprendente abbondanza se non rifiutiamo il disturbo di queste inquietanti considerazioni.)
Restiamo però con questa domanda materica e stratificata: che fare alla fine del mondo? Come essere respons-abili, in grado di offrire risposte a questi tempi di radicali mutamenti ai confini della nostra carne?
Bene, innanzitutto, il mondo è finito molte volte. Non sto parlando di estinzioni o di arrivi spettacolari dal cielo. Sto parlando di tutti i modi con cui qualcosa di inaspettato irrompe radicalmente e sconvolge totalmente ciò che ci è familiare, come dopo un’accusa di stregoneria a Salem, di modo che è impossibile andare avanti. Criticamente, il mondo è finito molte volte per far posto alla bianchezza – l’imperativo che impone la messa in forma del mondo arruolando corpi di ogni sorta per garantire approdi certi e sicuri. E ancor più criticamente, non c’è un mondo solo, un mondo già fatto e dominante. Il mondo non è mai stato coerente o in ordine per molti di noi. E le forme della fine sono numerosissime – e sovente accadono ai margini della lingua.
Vorrei raccontarvi come il mio mondo certamente è finito. Vi posso perfino dire la data. Il 30 giugno alle quattro del pomeriggio ora indiana. A volerla guardar la cosa in termini archetipici stavo volando nel cielo come Icaro, tornando a casa da un rapido viaggio nei Paesi Bassi dove ero stato invitato per una conferenza. Il volo di ritorno era stato punteggiato dalla buona notizia un po’ ansiogena che mia moglie era in ospedale – molti giorni prima del termine – ed era sul punto di partorire il nostro secondo figlio, anche se io avevo appoggiato le labbra sul ventre di lei prima di partire chiedendo a lui di aspettare il mio ritorno.
Il suo arrivo segnalò uno strappo nel tessuto delle cose così radicale che lo stiamo tuttora elaborando. Innanzitutto, avevamo sempre voluto un’altra bambina, due figlie, il piano era questo. Una sorellina per Alethea. Ma il mondo contrattacca a modo suo – ed è nato Kyah, il nostro splendido figlio. Mia madre gli ha dato il nome Abayomi, il nome del mio defunto padre. Lo abbiamo amato e lo amiamo incondizionatamente. Faremmo per lui qualsiasi cosa. Ma poi un giorno, quando aveva quasi due anni, abbiamo iniziato a notare alcune cose strane… la prima cosa è stata il silenzio perché quando lo chiamavamo per nome non rispondeva – e non aveva la scioltezza vocale della sorella alla stessa età. Ci siamo detti che non importava, che ogni bambino cresce con ritmi diversi. Mia madre ci rassicurava che i bambini spesso parlano più tardi delle bambine. Ma quando ha iniziato a rifiutare il cibo e a fare capricci tali che tutto il terminal dell’aeroporto si congelava per capire cosa stesse accadendo, abbiamo capito che i nostri peggiori timori si stavano avverando. Quasi inevitabilmente arrivò una diagnosi: “disordine dello spettro autistico”.
Il punto è che non avevamo previsto l’arrivo di Kyah. È arrivato da un punto cieco, al di fuori del progetto, come il volubile ditino di un cucciolo umano sul cammino di una fila di laboriose formiche.
Al di là di ogni possibile comprensione, sono entrato in una fase di lutto. Onestamente, su un certo piano, mi danno ancora daffare domande del tipo: “ma perché proprio a me?”. Il mio dolore voleva ripararlo, aggiustarlo. Guarirlo. Mio figlio Abayomi era una crepa nel contenitore nelle mie più potenti aspirazioni. Come potevo giocare con lui, crescere insieme a lui, se lui c’era solo in parte?
Mi sono messo nella posizione dell’eroe. Mi sarei precipitato nella tempesta e l’avrei riportato al sicuro. Ciò che non riuscivo a vedere era quanto fossi già implicato (al di là delle mie migliori intenzioni o dei miei peggiori impulsi) nella costruzione di una sua inadeguatezza, con gli algoritmi che mi spingevano a ridurre ciò che non andava a ciò che stava accadendo nel suo corpo di bambino di tre anni. Volevo confinarlo nella promessa di una salute completa e totale, vaccinarlo per renderlo immune alle ferite del mondo – un po’ come quando nel mito Freya tentò di congelare l’universo di modo che suo figlio, Baldur, non morisse. E come Baldur, che venne colpito dalla freccia di vischio di Loki, anche mio figlio Abayomi, non avrebbe avuto la pienezza del nome, la pienezza di una definizione, di una cattura. Preferiva scostarsi, eccedendo la stretta, resistendo ai tentativi di esser reso adeguato, completo. Come un fuggitivo.
C’è una storia che risale ai giorni del commercio transatlantico di schiavi – la storia di una donna che una notte fu rapita. Con il suo bambino. Sulla nave diretta in Brasile, il bimbo non conteneva l’angoscia. Si agitava, piangeva e si inarcava tutto. Nel vascello sulle onde non c’era sollievo ma poi sua madre ebbe un’idea: la leggenda dice che si strappò un pezzo di stoffa dal vestito. E con quella intrecciò una bambola di pezza e la offrì al bambino perché giocasse. Un gioco nel ventre della nave schiavista. Come una canzone ad Auschwitz. E per un istante, il bimbo fu consolato. La madre, che era di origine Yoruba, grata chiamò la bambola Abayomi – lo stesso nome dato a mio padre e a mio figlio. Il nome significa “il nemico mi avrebbe sopraffatto, ma Dio non lo ha permesso”. Significa anche “pensavano di avermi seppellito ma non hanno capito che sono un seme”. Significa anche, “se ti inginocchi sul mio collo, anche tu ti spezzerai”. Significa anche “esiste una strano potere nelle profondità e nei luoghi abbandonati”. Significa che l’impresa coloniale si disfa grazie al fatto che nulla può essere completamente catturato – tutto trabocca, tutto si muove. Tutto è estatico, eccedente, inebriato nell’emergere.
Gli anziani nel mio mondo sarebbero d’accordo nel dire che la bambola di pezza non era un mero assemblaggio di stoffa e lacrime. Si trattava di Esu in persona, l’Òriśà, la divinità sovrumana che si era intrufolata nei registri dei padroni scombinando i loro calcoli e le loro pretese di far tornare i conti, diventando il punto cieco, il corpo estraneo salito sull’imbarcazione razionale della supremazia quantitativa. Esu è il trickster Yoruba, dio dei crocevia – ricco in agentività, colui che disciplina le nostre pretese di completezza con dosi omeopatiche di mostruosità, rompe i binarismi con cui osserviamo il mondo e apre una terza via. Questo è il dono di Esu. Il dono dei crocevia. Quella bambola di pezza trasformò un veliero di tortura in un grembo di legno, gravido di un popolo che ha arricchito il mondo diasporico di magica vitalità. Quella bambola di pezza è diventata il simbolo della resistenza queer nelle favelas di parti del Brasile. Abayomi ci ricorda che il potere non è potenza e che la sfida di dare risposte in tempi coloniali non significa necessariamente vincere, essere visti, essere riconosciuti dallo Stato – quanto imparare ad ascoltare, imparare a perdere la propria via.
Abayomi è l’eco di mio padre; Abayomi è mio figlio che non può essere contenuto. Abayomi è l’estrema eccessività del reale che significa che persino la cella della prigione e ogni sorta di dispositivi di dominio non saranno sempre funzionali alla programmazione prevista. Abayomi è l’anomala ufficiosità del reale. Abayomi è la nerezza – il cuore del mio invito a pixel che vi mando sotto cieli misteriosi.
Badate. Proprio come l’autismo non ha solo a che fare con eventi neurologici nella testa di un figlio, ma con i modi con cui produciamo e nominiamo i corpi e i mondi che li supportano escludendo altre corporeità, la Nerezza non riguarda solo persone nere (così come la bianchezza non riguarda solo i Bianchi), anche se emerge dall’attenta considerazione dei contesti, delle esperienze e dei viaggi di entrambi. La nerezza è una cripistemologia che considera l’uomo, l’Anthropos, e ciò che fa, ciò che produce, ciò che esclude; la nerezza è la ricerca di nuove disabilità, di nuove fedeltà corporee. Riguarda un mondo macchinico che definisce alcuni corpi speciali – e altri corpi come appendici superflue, vicine all’animalità, e che non giungeranno mai alla gloria e alla nobiltà di quei corpi che si identificano come corpi bianchi: una nobiltà grevemente sostenuta dal diniego censorio della vitalità del mondo materiale. La nerezza non equivale agli slogan riprenderci il nostro, vendicarci, essere uguali, essere pagati. Non equivale a quella opposizione normativa che rientra, in fondo, nell’architettura del progresso bianco. Riguarda invece il modo in cui corpi rimangono invischiati nei mondi che creano, nei mondi che li creano – riguarda le aperture, le crepe, che spesso emergono, quasi miracolosamente, riguarda i portali attraverso i quali possiamo intuire con un’intensità percettiva quasi animale che una diversa via è possibile.
La nerezza è la bizzarra qualità di un’abbondanza che sgorga dai posti più impensati. Un verde gambo appena germogliìato nel deserto, un fungo che cresce da una cisterna radioattiva a Chernobyl, una bambola di pezza su una nave schiavista, vita queer, vita fuori registro nel bel mezzo di un’Antropocene a tonalità pandemica. La nerezza è morte – non l’estinzione finale dell’immaginazione occidentale, ma quel morire che culla la vita, che immagina di poter inciampare su un tesoro, che dove cadiamo e perdiamo speranza esistono ragnatele dove divinità ebbre scivolano dal divino sino agli oceani per creare nuovi mondi con le loro zucche a fiasco (calabash) fatte di sabbia.
È per questo che Frank B. Wilderson III, nel suo libro Afropessimism, dichiara che la nerezza invoca niente di meno che la fine del mondo. C’è forse una speranza di pace nel Medioriente? Il dispositivo esausto dello stato-nazione potrà mai render conto della violenza fatta al cosiddetto sud globale? Un assegno da 1 miliardo di euro versato dalla Germania alla Namibia per il genocidio dei popoli Herero e Nama dal 1904 al 1907 giungerà sino alle ossa di chi è stato ucciso? Il dispositivo duale dell’alleanza terapeutica nella psicologia clinica basterà a propiziare un risveglio dei sensi allertato e sensibile nei confronti di quel mondo che è la condizione in cui viviamo oggi? C’è spazio per corpi che si identificano come bianchi per le gioie di un selvaggio mondo animista ben oltre la cattura faustiana dello stato-nazione? Non c’è speranza all’interno dell’attuale configurazione dei corpi, non c’è pace da spremere dalla polpa della cattura coloniale. Nessuna giustizia potrebbe bastare se già programmaticamente connessa alle circostanze stesse che producono ingiustizia.
Ci vuole una svolta.
La nerezza ribalta la matrice, ne è la faglia… non singola risposta, ma progetto cartografico per smarrire il cammino… invito a perdersi, dignità del fallimento, imperativo del compostaggio.
Più semplicemente, la nerezza è il permesso di fallire – ma non solo, è anche la promessa del rinnovamento nel fallimento fuggitivo. E non potrei immaginare cosa più importante da condividere con voi che questo invito al fallimento. Lo chiamo ”inabilitazione generativa” – i miei figli non scolarizzati di 7 e 3 anni lo chiamano come vogliono.
È che non possiamo rischiare di avere successo; non possiamo rischiare di fare tutto quello che intendevamo fare. Intendiamoci, è bellissimo realizzare le nostre aspirazioni, vedere accadere delle cose, sognare bei sogni, impiegare bene il nostro tempo… ma il successo di cui parlo non è tanto il testo quanto il contesto, le modalità che imbrigliano, i modelli di comportamento che proibiscono e sono insensibili agli imperativi della perdita, del buon morire, del perdere terreno, del diventare-altro, dell’essere turbati, accolti e sconfitti dalle cose che ci eccedono. D’ora in poi, non possiamo rischiare una navigazione serena. Non possiamo rischiare l’arrivo, non possiamo rischiare di essere salvati se la nostra aspirazione è la trasformazione. Essere salvati significa restaurare una riconoscibilità, reinscrivere la formula del medesimo: questa è la stessa grammatica di chiusura indifferente coinvolta nel riscaldamento degli oceani, nella pandemia e persino nella ripetibilità ciclica degli attivismi contemporanei che aspirano alla giustizia e della politica liberista, quando utilizzano gli stessi strumenti irrigiditi per creare una totalità etica che non genera altro se non il senso della propria superiorità. Vedete, dobbiamo lasciare qualche spazio per le divinità e le bambole di pezza.
È questo che significa incontrarsi ai crocevia. Significa vivere come se vivessimo con e grazie agli altri – perché di fatto è quello che facciamo. Significa accorgersi che ogni linea retta è abitata da traiettorie liminali che la intrecciano, e che la continuità è generata dai luoghi dove corpi toccano altri corpi. Significa ascoltare la voce di Harriet Tubman (vedi https://it.wikipedia.org/wiki/Harriet_Tubman, NdT), uscire dall’autostrada e guadare le acque, trattare con ospitalità le cose che ci accadono. La fine del mondo non è la fine della strada – una tale cornice è troppo euclidea per essere adeguata ai nostri tempi. Invece, la fine del mondo è lo spirito del chiasmo (figura retorica dove le prospettive si intrecciano e rovesciano mentre in biologia è il punto di contatto, singolo o multiplo, tra cromatidi di cromosomi omologhi durante l’appaiamento NdT), il luogo dove corpi incontrano ciò che li ha fatti. È Il fallimento quanto la munificenza di questi preoccupanti incontri.
Concludo con le moralistiche raccomandazioni che in queste occasioni gli oratori rivolgono agli studenti, non preoccupatevi potete ignorarle del tutto se volete:
- Questa è l’epoca del fuggitivo, la decade della discesa.
- Se la vostra competenza è di diventare respons-abili per questi tempi pesanti, mi auguro che sia una competenza balbettante, il genere di maestria che rallenta e ascolta – che vi rende sufficientemente animali da restare sensualmente presenti e percettivi rispetto alle possibilità di cui la superficie non sa nulla.
- Le cose non andranno sempre come vorrete e questa non è una cattiva cosa. E’ per questo che noi africani offriamo libagioni. Non solo per ricordare le gioie di una stabilità di origine ancestrale, ma per onorare il dono di una crisi e – nel momento in cui la bevanda tocca terra e solleva polvere, come a turbare il terreno stesso su cui poggiamo – per profetizzare ai piedi dell’ a-venire impensato e non ancora immaginato. Preghiamo di accelerare la fine per poter vivere. Una preghiera contradditoria.
- Oggi gli scienziati ci parlano di batteri zombie, biosfere queer e delle loro civilizzazioni sotterranee, sotto un terreno che un tempo immaginavamo immobile e utile solo per custodire cose morte. Siamo entrati nell’era dell’iposoggetto, del soggetto di sotto; l’età dell sub-scendenza più che della trascendenza. Un invito elettrizzante riempie l’aria: è ora di scendere, di esplorare i nostri fallimenti e la miriade delle loro intersezioni come luoghi porosi, per poter avvicinare ciò che è più-che-umano.
- Se siete stati buoni alleati bianchi mi complimento con voi. E anche se ho bisogno di voi non posso restare qui. E questo probabilmente è vero anche per voi. Non posso rischiare di essere incluso in questi luoghi di potere. Occupare la tolda della nave schiavista mi lascia pur sempre qui, ci lascia qui sulla stessa imbarcazione. E non voglio un posto al tavolo, voglio volare via come gli uomini e le donne Igbo che volarono via da Dunbar Creek. Forse nel mio volo potreste accorgervi che nel più ampio fluire delle cose potrebbe non essere così importante essere stati o meno buoni cittadini… forse nel mio volo potreste scoprire che anche voi state diventando qualcosa d’altro. Anche voi siete in movimento e non siete mai arrivati.
- Non siate così dipendenti dalla ricerca di ciò che è straordinario. Invece invece oggi dobbiamo cercare ciò che è veramente ordinario perché ciò che è straordinario desidera diventare ordinario. Per prendere atto di ciò che è sacro, per essere sensibili alla giocosa indeterminazione delle cose è necessario essere stati sufficientemente perforati. È solo grazie alle ferite che ci sono state offerte da questi grandi mutamenti che diventiamo stranieri.
- Il nostro lavoro è intergenerazionale. I nostri fallimenti devono essere messi in gioco. Non saremo mai del tutto svegli, finalmente consapevoli o finalmente retti. Dobbiamo accettare che le nostre vite non hanno la durata e la competenza sufficiente per contenere tutte le domande che potremmo esplorare, perché le vite e le morti non hanno a che fare solo con la durata. Ed è per questo che la morte ha bisogno di una nuova cosmologia.
- E infine, trovate gli altri. Non so chi siano, che cosa siano. Ma le aperture della nostra carne vibrano con le frequenze del loro desiderio di incontrarvi nella corrente. Trovate gli altri. Ecco una mappa: ascoltate i vostri fallimenti non coprite le crepe, anzi approfonditele. Qualsiasi cosa facciate non cercate di rendere il mondo un posto migliore; invece considerate che il mondo potrebbe star cercando di fare di voi un posto migliore. Ascoltate.
- Devo concludere con la domanda con cui ho iniziato: E se una certa idea di giustizia interferisse con la possibilità della trasformazione? E se il mondo fosse cambiato così radicalmente che dobbiamo imparare a incontrarlo diversamente? E se mio figlio non fosse nella tempesta ma la tempesta? E se la mia genitorialità non consistesse nell’insegnargli a seguire la retta via? Se avesse invece a che fare con le possibilità congestionate, mostruosamente abbondanti, disponibili nelle cose che così sovente impariamo a patologizzarre? E se la mia cosiddetta sanità fosse sempre stata la mia prigione? E se questa ferita messianica mi spingesse verso qualcosa di diverso? Qualcosa di incalcolabilmente più strano di qualsiasi cosa potremmo immaginare?
- Oggi, mentre le grandi strade sanguinano e crocevia fuggitivi nascono dai luoghi di frattura, vi auguro di fallire generosamente, di conoscere mondi che altri non conosceranno, di accedere a una tale ricchezza vitale che avremo bisogno di inventare nuove parole per descrivere la grazia e la gravitas della vostra danza nella piazza del villaggio. Che la vostra via sia dura e che gli intralci siano il vostro santuario.
- Incontriamoci al crocevia.»
Bayo Akomolafe
Trad. Fabrice Olivier Dubosc
Già pubblicato in Clinica della Crisi
Testo originale e video della conferenza
https://www.bayoakomolafe.net/post/lets-meet-at-the-crossroads