Avendo attraversato troppi aeroporti e terminal nel mio viaggiare verso destinazioni di tutto il mondo, di recente ho iniziato a pensare alle mie esperienze: in particolare, al modo in cui queste strutture monumentali ci modellano, ci disciplinano e ci usano.
Pensa ai modi specifici in cui gli aeroporti organizzano i corpi umani; come i paletti e le corde di velluto ci fanno camminare in assurde formazioni a zig zag; come siamo indotti ad assumere posture specifiche per comunicare che ci si può fidare; come i nostri corpi vengono bombardati, penetrati, scansionati, rilevati, resi intelligibili e modificati da raggi X ansiosi, e quindi inseriti in schermi che danno il via libera all’accesso o ci segnalano come entità sospette; e come determinati desideri e bisogni sono istigati dalla zona dei consumi di lusso – arbitrariamente posticipati a dopo il calvario delle linee di immigrazione.
In alcuni aeroporti “avanzati”, il traffico umano di piedi che si affrettano e scatole a rotelle viene ingenuamente impiegato per generare la stessa energia che mantiene in funzione alcune sezioni dell’aeroporto. In altri aeroporti, il bagliore incessante dei media touchscreen anche per le interazioni umane più elementari, conferiscono al luogo una sorta di atmosfera cyborg.
Da quando i body scanner sono stati introdotti nel 2009, hanno scatenato polemiche su questioni relative alla giustizia sociale, alla privacy e alle modifiche corporee intrusive dei corpi in viaggio, evocando teorie pop come l’idea che queste tecnologie cambino il DNA. Sta diventando un rituale perenne continuare a rassicurare i viaggiatori globali che “i body scanner aeroportuali non alterano il DNA” e che tutto ciò che queste macchine fanno davvero è cercare di rilevare le minacce. Tuttavia, ciò che viene qui messo in discussione è il presupposto che l’individuazione non sia già una forma di interposizione. Non solo: l’idea che il corpo sia già una cosa prefigurata, già fatta, solida e ontologicamente chiusa alla mutevolezza, un fatto compiuto, meramente oggetto di conversazioni sulla prevenzione e la sicurezza, è un ‘privilegio’ dei modi moderni di conoscere. Nel “vedere” i corpi, gli aeroporti non si limitano a rappresentare i corpi come contorni generici o avatar disponibili per l’esame, ma trasformano i corpi imponendo aspettative che alimentano un ambiente di conformità, che privilegia un ordine pubblico che produce soggettività in modi specifici.
In un certo senso non si passa ‘attraverso’ l’aeroporto; uno DIVENTA l’aeroporto. Gli aeroporti producono l’incarnazione e fabbricano il corpo – tutti i tipi di corpi. Facciamo parte dei suoi mobili, noi che viaggiamo. Diventiamo “corpi aeroportuali”, parte di un ecosistema che razzializza l’accesso e sottolinea la sicurezza come valore di sopravvivenza. Parte del testo della sua organizzazione più-che-umana. Ci sentiamo ricompensati quando ci uniamo alla coda, e poi proteggiamo l’integrità della coda ricordando educatamente agli altri invadenti che “c’è una fila, sai?” Conosciamo la segnaletica e i simboli: i caratteri e le frecce stilizzate dal bordo smussato che ci indicano il Gate 54B. I nostri sensi sono ben allenati dalla levigatezza del pavimento dell’atrio, dalle luci lampeggianti che annunciano “l’imbarco” in una lingua diversa. E quando attraversiamo i cancelli, spesso dalle nostre labbra sfugge un sospiro sordo: l’iniziazione è completa. Possiamo reclamare i nostri posti nell’uccello di metallo che piega il tempo e lo spazio. Diventiamo i batteri intestinali della possente aquila: pulendo il suo stomaco, sporcando i sedili, eseguendo il volo.
Mi interrogo sugli altri modi in cui gli aeroporti – per quanto transitori siano per i viaggiatori occasionali – modellano, penetrano, ri/modificano e rappresentano “noi”. Sono possibili per il corpo “umano da aeroporto” certe modalità di conoscenza che sono impossibili per altri tipi di corpi? Forse, e con più urgenza, di quali altri sistemi facciamo già parte? E come veniamo interpretati in quanto mobilio in più ampi assemblaggi politici, geologici, idrologici? Come rispondiamo alla domanda (“chi sei?”) quando l’identità è sempre queer, ‘disorganizzata’, rimandata, relazionale e ancora da venire?
Bayo Akomolafe, 13 febbraio 2023
Testo originale https://www.bayoakomolafe.net/post/becoming-airports