Il postattivismo, il concetto che sostiene la mia nozione di creazione di un santuario, è una questione di irruzioni ed eruzioni, scoperte, crepe, bagliori, fessure, linee di faglia, discontinuità, esplosioni, spaccature, fratture, rotture, spostamenti sismici, aperture che pongono fine al mondo, miracoli, strani incontri e le fauci spalancate di un mostro. È il mio modo di descrivere i flussi e le possibilità che procedono dal momento in cui le cose non vanno più bene.
Lasciatemi spiegare.
Nel libro di una cetologa sull’incontro con le orche (e raccomanderei questo libro se solo ricordassi il titolo – ma non lo ricordo: è passato molto tempo dall’ultima volta che l’ho letto, ma questo racconto particolare, contenuto in quel libro così sfumato, è rimasto con me nel corso degli anni), descrive la sua routine di visitare la grande piscina dove vivevano le orche assassine (o erano delfini tursiopi?), come parte di uno studio in corso sull’intelligenza dei cetacei. Studiare le balene era la passione della sua vita. Sapeva come muoversi. Conosceva i rituali, le tecnologie, gli strumenti, i gerghi, i suggerimenti, i dati. Sapeva cosa fare.
Ma un giorno, all’improvviso, non fu così.
Tenne una sessione con le bestie, ma scoprì rapidamente che tutti i suoi suggerimenti e le sue aspettative non stavano andando secondo i piani. Dette un comando, ma non vi fu alcuna delle risposte abituali. Non hanno spinto la palla galleggiante o fatto quello che lei aveva richiesto. Perplessa, lasciò perdere per quel giorno, solo per tornare allo stesso confuso fenomeno il giorno successivo. E il giorno dopo. Era preoccupata per loro. Tuttavia, notò che gli oggetti del fascino di tutta la sua vita sembravano fare progressi nei suoi confronti, in modi che all’inizio non sembravano straordinari, e sembravano conferire tra di loro. Un giorno, improvvisamente un pensiro la colpì: la stavano studiando. In qualche modo, avevano riportato su di lei lo sguardo del ricercatore. La cetologa era ora l’oggetto dell’indagine dei cetacei.
Immagino fosse quasi impossibile per questa biologa tornare agli stessi protocolli a cui era abituata. Questa esplosione nel tessuto della continuità cetologica – quando le orche iniziano a immischiarsi nei protocolli di ricerca e a incasinare i dati – deve aver avuto ripercussioni a livello mondiale. Cosa fai quando una roccia passiva, litica e muta, fa germogliare un arto? Quando una montagna che hai scalato sospira dolcemente? Quando sei interrotto dalla consapevolezza che la coltura microbica che hai fritto nel tuo laboratorio potrebbe avere una vita interna e potrebbe provare dolore? Quando un minuscolo virus semina il caos su comode economie e sistemi di pensiero? Quando il terreno sotto i nostri piedi si scongela nel calore del riscaldamento globale, ritira il suo sostegno alla moderna perpetuità e perseguita le nostre conversazioni? Cosa fai quando il mondo scalcia?
Il postattivismo non è il modo in cui descrivo una forma superiore di essere che garantisce soluzioni. Non è “post-” nel senso di essere una narrazione successiva, una verità più profonda, una pista più sicura verso mondi utopici, una formula per salvare il mondo. Invece, è il sito in cui la continuità diventa impossibile, dove “il mondo” nella sua completezza colonizzatrice si sente meno avvincente di quell’unico luogo squarciato che fa germogliare nozioni aliene, e dove le soluzioni dell’autostrada sembrano inadeguate a una insolita, più-che-umana, disposizione.
Una crepa schiumosa si apre nel terreno, mettendo in atto una rottura nella totalità senza soluzione di continuità e della conoscibilità delle cose, interrompendo l’esclusività dell’agire e dell’indagine umana, disperdendo la vitalità ed espandendo la socialità per includere cose che non avevamo considerato. Tutto cambia, diventa estraneo. Alieno.
Questo è postattivismo. Quando siamo arrivati alla fine della corda, alla fine del mondo, e non ci sono più parole.
– Bayo Akomolafe –