Fare spazio all’inciampo: un invito a Vunja!

Buonasera, il mio nome è Bayo Akomolafe ed è di nuovo quel momento dell’anno – probabilmente il momento più entusiasmante per me – in cui mi incontro con estranei, con amici, con persone che conosco e persone che non conosco, che non mai incontrato, in un rito collettivo di indagine, di ricerca dello squisito, di parole che restano non dette e specialmente di parole non dicibili.

Faremo questo per un paio di mesi: porre le domande che la maggior parte delle persone non si sta facendo. Spostarci di lato, sgusciare dalla logica comune, assottigliare il modo abituale di concepire, esprimere, inseguiamo e articoliamo la realtà.

Ho avuto una conversazione, qualche tempo fa, con un’amica, una cara sorella che abita in posto che si chiama Sandpoint, nell’Idaho (ti riconoscerai). Si chiedeva perché “insegno”, qual è la motivazione del mio “insegnare”, del mio essere così coinvolto ed emozionato – specialmente in questo momento dell’anno, quando sto per fare questo corso con persone da tutto il mondo. E una cosa su cui eravamo estaticamente d’accordo era che il mio lavoro, il mio insegnamento – se è possibile pensare in termini di “mio” lavoro, di “mio” insegnamento – non è qualcosa come l”evangelizzazione”… Forse la cosa più orribile per me è l’idea di venire emulato, vedere i miei pensieri o i miei concetti copiati alla lettera e in qualche modo presi alla lettera come una verità. Non si tratta di replicare o l’idea di un’autoproliferazione. C’è il desiderio di qualcos’altro in riferimento al mio impegno, che posso rendere più chiaro con una rapida storia, o meglio non proprio una storia ma il contorno di una storia – il tipo di storia con cui sono cresciuto da ragazzino in africa occidentale, in Nigeria.

Quelle storie parlano di come intrattenersi con lo sconcerto. Poteva essere una tartaruga in una foresta, dove il protagonista è invitato a intrattenersi con questo trickster, questa creatura dell’altrimenti, ignobile o abominevole. Oppure un bambino veniva invitato – attraverso la trama di queste storie e lo svolgersi delle azioni – a fare spazio a un’anziana donna e ascoltare le sue istruzioni, laddove la cosa più facile da fare è scappar via.

Sono cresciuto in una cultura in cui proliferava l’idea di una radicale ospitalità, di apertura alla stranezza. Persino nella mia educazione cristiana c’era l’idea di intrattenersi con gli angeli, gli angeli che arrivano all’improvviso e tu non sai mai quale forma abbia lo straordinario, ripiegato dentro l’ordinario. Ecco che l’idea dell’invocazione, della benedizione, del sermone, era per aprire i tuoi cancelli e le tue porte agli angeli: aprire le proprie porte dell’ordinario. Perché potresti non sapere in che modo l’ordinario possa farsi contenitore del divino, se così si può dire.

In un certo senso, proprio questa idea, questa sensazione, questo tropo guida e motiva il mio lavoro. E’ chiedersi quali altre cose può fare la cultura, in quali altri modi possiamo parlare, quali altri colori non vengono ancora visti, quale altra sensibilità e sensorialità, affettività e capacità, pensieri e immaginazione e sentimenti, quali altri futuri tentacolari sono nascosti e avviluppati nell’ordinario. Temporalità escluse dai nostri abituali modi di parlare, dai nostri abituali paradigmi di pensiero. Che cosa può fare la cultura? Cos’altro eccede la cultura? O per usare l’estatica espressione di questa mia sorella con cui parlavo: “Non c’è qualcos’altro di nuovo? Non c’è qualcosa di sorprendente? Non c’è davvero nient’altro?”.

We Will Dance With Mountains è, ed è stata, una vocazione a stare all’interno di una pausa. Stare all’interno di quella che io chiamo selah, il luogo in cui il testuale non è più sufficiente, in cui il linguaggio non serve più, dove dare un senso richiede smarrimento, in cui la chiarezza produce oscurità, dove la confusione può essere più efficace per il genere di progetti che stanno emergendo con urgenza e necessità in questo nostro tempo, anziché la vocazione di arrivare a una soluzione. Questo è il motivo per cui mi adopero. Ancora, ancora e ancora.

Non c’è un Io di per sé, ma un villaggio. Un villaggio di trickster, di insegnanti e professori, di accademici e intellettuali, di poeti e artisti, di nonne e bambini, di pittrici e cantanti e danzatori. E tutti noi assieme ci stimo muovendo verso questa musica, questo strano suono sincopato che smantella il solco della marcia imperiale della continuità… di questo si tratta.

Allora, desidero invitarvi a unirvi a noi. Le registrazioni stanno proseguendo e la nostra prima festa, sessione, lezione… non so come chiamarla, sarà il 3 settembre. Quindi, tra pochi giorni siamo obbligati a chiudere il portale per poi dispiegare il tessuto del prendersi cura, del sostare, dell’invitare i trckster a una selvatica esplorazione di nuovi modi di pensare e di nuovi pensieri e nuove logiche che possano radicarsi.

Se pensate o sentite di aver partecipato a qualcosa di simile in precedenza, probabilmente non è così. Ma se sentite che questo potrebbe essere il momento di rovesciare il progetto politico di questi tempi che sembrano co-costituirsi a vicenda, senza arrivare effettivamente a qualcosa di nuovo – senza arrivare necessariamente allo squisito, al fuggitivo, all’impossibile, non per cercare l’impossibile, ma per provare ad affrontare gli impatti del presente – allora potreste essere le persone giuste per questa esplorazione, potreste essere nel posto giusto, potreste essere quelli e quelle che desideriamo servire, magari con una tazza di tè.

Questo è il semplice invito a questo corso, a questa festa, a questa quilombola, a questa spedizione, a questo rito di passaggio: essere a servizio, sentirvi digregati e aperti.

Vi do il benvenuto e vi invito a We Will Dance With Mountains: Vunja!
Grazie

Bayo Akomolafe

Questo il link per iscriversi al corso entro il 27 agosto:
https://wewilldancewithmountains.slideroom.com/#/Login

Video-invito originale:

Trascrizione e traduzione a cura di Rebecca Rovoletto