Come la spiaggia è un prodotto delle onde, modellata e sincopata dai persistenti arrivi d’acqua che sono già partenze, allo stesso modo l’oceano è nutrito e modulato dalla spiaggia. Non c’è “là-fuori” che non sia già “qui-dentro”. Nessun lontano barlume nel firmamento che non sia coltura di cellule e grumo di carne. I “nostri” corpi sono porosi, sversanti, esposti e in costante dialogo con le ecologie, con l’architettura, la trama, l’intensità, con campi di flusso, con sperimentazioni molecolari desiderose e appassionate – la maggior parte delle quali supera il dicibile e le nostre concettualizzazioni molto umane sulle loro intenzioni.
In questo senso i corpi non precedono i contesti che abitano; i corpi sono calibrazioni dinamiche dei loro mondi: vivere è vivere-con/in. Fare è fare-con/in. Pensare è pensare-con/in. Non c’è modo di separarsi dalle dense relazionalità che sono la condizione stessa delle nostre pretese di indipendenza sovrana. Allo stesso modo in cui tutti i bambini concepiti dopo l’agosto 1945 portano un po’ di carbonio-14 nei loro corpi – segni rivelatori di un passato radioattivo che permane come un peccato originale nella nostra carne – siamo profondamente segnati e prodotti dalle intensità dei mondi che sono presumibilmente fuori dalle nostre finestre o nascosti nei nostri libri di storia. Di per sé non nasciamo: siamo fatti. Ancora e ancora
Ciò che agita e si contorce nel testo di questa contemplazione, di questo sermone, è che anche se diciamo di volere la trasformazione, anche se aneliamo al volo, anche se preghiamo per la fine dei sistemi oppressivi attraverso i nostri attivismi, e anche se siamo feroci difensori della giustizia, siamo già nutriti e stabilizzati dentro i vortici dei mondi che ci ostiniamo a smantellare. Le nostre esibizioni discorsive potrebbero cercare l’ospitalità dell’immigrato stanco, ma i nostri corpi nella loro espansività miceliare spesso mettono in atto e imitano i rigidi parametri di accoglienza della città, tagliando le parti tentacolari del mostruoso in modo che diventi abbastanza civilizzato da essere “uno di noi.” Non sto parlando solo dell’immigrato umano; mi riferisco all’immigrato concettuale, all’idea straniera, al pensiero offensivo, alla nozione inquietante, alla spina nel fianco, alla cosa eretica e indicibile che compare sulla piazza.
Quali mondi alieni si nascondono dietro la sensazione di sentirsi offesi? Da cosa ci chiudiamo e da cosa ci proteggiamo quando insistiamo sulla “sicurezza” come prerequisito per la partecipazione sociale? Cosa ripetiamo quando inquadriamo la politica come vittoria sull’”altra fazione”? Cosa sfugge al viaggio dell’eroe in merito ai mostri sconfitti lungo la strada? Quale segreto prodotto dell’opposizione viene oscurato dalla pretestuosa distanza tra “noi” e “loro”? In che senso siamo rinchiusi in una macchina morale, una macchina da guerra, un sistema sensorio affannato che fa girare, riproduce e rafforza gli algoritmi della modernità carceraria? In che senso siamo chiamati a rafforzare le reti di sofferenza in modi che reinscrivono ironicamente al loro interno le nostre pratiche più coscienziose di “non fare del male”?
Sto parlando dei modi in cui siamo tutti coinvolti – al di là della scelta e del consenso, al di là di ogni spassionata razionalità – in onde fluide di accoglienza e rifiuto. Sto parlando dei modi in cui la critica spesso “ulula alla luna” in un duplice modo: fustiga i poteri abituali mentre alimenta quegli stessi poteri con risorse che ne assicurano la longevità e la resilienza.
Questo è il mio sermone postumanista, un invito urgente a considerare che siamo arruolati nella proliferazione del medesimo – specialmente in un momento in cui le divisioni bruciano tra noi, in cui la fortificazione dei recinti tra tribù politiche potrebbe suggerirci che siamo a ai ferri corti con gli ‘altri’. Che noi siamo puri e loro no. Che noi capiamo il mondo e loro no.
Parlando con i miei cari fratelli, Orland Bishop e Resmaa Menakem, mentre eravamo in tour insieme, nella privacy delle nostre esplorazioni emergenti e divergenti di oscurità e possibilità, ho posto un indovinello a metà: “Immagina che sia successo qualcosa al mondo; qualche evento planetario senza nome che ha cancellato tutti i nostri ricordi. Ci svegliamo una mattina ed è tutto finito: i nostri ricordi di passati oppressivi, storie di schiavitù, tensioni razziali, traumi coloniali, tutto finito. In qualche modo. Come se un essere soprannaturale avesse premuto un pulsante di ripristino e ci svegliassimo tutti senza linguaggio, senza contesto, senza direzione. Tutti noi, tranne i neri. Tranne gli africani. Tutti gli altri hanno dimenticato, ma noi no. Ricordiamo i dolori di essere relegati, compravenduti, maltrattati e dislocati. Il reset non ci ha toccati.” Ed ecco la mia domanda: “In questo scenario, cosa ne sarebbe della whiteness come progetto geoingegneristico di supremazia?” Senza esitazione, Orland Bishop ha risposto: “Lo riporteremmo indietro. Lo ripeteremmo. Sgorgherebbe dalle nostre ossa e troverebbe nuova vita in quelli che ricordano.
Bayo Akomolafe
Immagine: Mark Basarab
Testo originale: https://www.facebook.com/bayoakomolafeampersand/posts/pfbid04AnP7VasZH3RrPy7ycT2QRk6Mc795PfYisDKX6RmkyUKMNq4XR1vKPWTogBi9enKl